Bergamo – “Città Alpina d’Italia”
“Bergamo; e io vorrei farle una dichiarazione d’amore. Ma con le parole di adesso non si possono fare dichiarazioni d’amore; ci vorrebbero le parole antiche” (Vittorio G. Rossi, 1910)
Quali parole mancavano allo scrittore ligure per far arrossire Bergamo? Quale la lingua per corteggiare una colta signora? Come poterla stupire…
Ci ha provato Lorenzo Lotto dipingendo per lei soavi Madonne, Francesco Petrarca e Torquato Tasso dedicandole versi gentili. Secolari ippocastani proteggono la raccolta intimità che passeggia nei chiostri dei suoi antichi monasteri e colonie di faggi frondosi giocano ad ombre cinesi con l’erba che serpeggia tra i ciottoli nelle sue piccole vie, riparando il consunto selciato, sazio dei raggi di sole; ma dove questi splendono liberi fino al tramonto, corolle di vistosi oleandri colorano di macchie mediterranee questa “città alpina d’Italia”.
Sculture animate di magnifiche magnolie cospargono di petali i giardini curati delle ville neoclassiche, eleganti passerelle dove il liberty indossa il suo stile senza tempo.
Splendida è l’alba sul Campanone, controvento profumo di ulivi. L’edera sgranchisce le sue foglie per arrampicarsi sulle mura.
Carezze di rugiada sulle cannoniere, girotondo di sfingi intorno alla fontana. Faticano a svegliarsi le torri, coperte da un manto di foschia: la vecchiaia porta pigrizia, e forse sono andate in pensione. Non c’è piu bisogno di stare allerta: la città ora è tranquilla, ma i leoni alati di San Marco restano in perenne vedetta sulle porte.
“Virtù tra questi colli alberga” recitava il Tasso, arrampicandosi sui colli dalla sua casa di Borgo Pignolo: lassù si riposa lo spirito, nell’armonia di un ambiente tranquillo, allietato da note di verde e da piccole chiazze di fiori, mentre l’occhio gradevolmente si abbandona, soffermandosi a volte curioso su rustici casali e fattorie, per poi perdersi finalmente nell’orizzonte, in una distesa di blu senza fine.
A mezzogiorno sotto il Palazzo della Ragione la meridiana attende il suo raggio di sole, mentre le cucine diventano officine: polenta taragna, casoncei ed “è il cibo degli dei la polenta con gli osei!”.
Persone frettolose camminano nelle piazze e nelle solite vie, mentre scalette dimenticate attraversano i borghi antichi, nel silenzio delle strade deserte, tra orti botanici, chiese e muri scrostati dall’inevitabile usura del tempo, unica nemica in agguato di rocche e torri di vedetta, dalle quali si avvistavano i nemici nelle battaglie dei tempi che furono.
Bergamo fu, infatti, una cittadina da sempre contesa, già dai tempi di Attila, che la volle per sè. Non solo lui, ma fieri condottieri della Serenissima, potenti ducati e regni mandarono i loro eserciti per conquistarla, e la città oggi conserva i segni di tutti i passaggi, i graffi di chi volle espugnarla, ma anche lo splendore di tutti coloro che ne portarono ricchezza, non solo in monete d’oro, ma in cultura, arte, umanità.
E in musica, attraverso le opere di Gaetano Donizetti, che rese Bergamo famosa nel mondo per l’opera lirica, sprigionando la sua passione in un’esplosione misurata di note, che arrivano, viaggiando come su cavi elettrici, fin sotto la pelle, fino a far venire i brividi. La sua musica oggi risuona tra i vicoli selciati della città, diffuse da casse acustiche che liberano note nell’aria, come farfalle scappate da una voliera o come quel gufo che prese il volo, fuggendo dal buio della casa natale in Borgo Canale (“E siccome gufo, presi il mio volo”, Gaetano Donizetti).
Ancora la musica, ma in sacre melodie, si innalza attraverso le canne preziose di organi antichi, capolavori di mastri organari, che per generazioni portarono lustro alla città. Le chiese trattengono gelose coi loro portoni chiusi l’intensità di questi suoni armonici, che accompagnano da secoli i fedeli raccolti nelle loro devote preghiere, anche quelle di un uomo che qui pregò tante volte e a questa città lasciò un segno profondo nel cuore. Era nativo di Sotto il Monte, un piccolo borgo in provincia di Bergamo, Angelo Roncalli, in carica dal 1958 come Papa Giovanni XXIII, e ricordato come il “papa buono”; insegnò per anni al seminario vescovile, donando il suo calore umano ai bergamaschi e poi al mondo intero. Oggi a lui è intitolata una via, accanto ai Propilei di Porta Nuova, che danno un non so che di acropoli all’attraente profilo di Bergamo bassa, in cui un insieme eterogeneo di stili e di epoche ci appaiono stupendamente fusi nella logica disposizione delle piazze, arricchite da eleganti porticati e dall’inconfondibile espressione d’arte che si manifesta in alcune fontane, scolpite nel marmo con gusto classico e piacevolmente aristocratico.
Seducenti effetti di luce ed equilibrate simmetrie convivono col traffico intenso del tran tran quotidiano, mentre “incastonato con intrigante segretezza”, il Chiosto di Santa Marta “resta discreto e silenziosamente assorto in un raccoglimento quasi sacrale”.
Lo sguardo ci porta sulle Mura venete, ricordandoci l’emozione raggiante dei volti di quelle undicimila persone che nell’estate del 2016 hanno regalato a Bergamo un momento indimenticabile, unendosi nell’abbraccio a staffetta più lungo del mondo, entrato nei Guinnes dei Primati.
L’Unesco oggi tutela a livello mondiale il valore artistico e culturale di quelle mura, nate per difendere, dalle quali nell’antichità si avvistavano i nemici, e oggi luogo di romantiche passeggiate e teatro di incantevoli tramonti.
Scoccano i rintocchi del Campanone.
Il buio nasconde la città ma splendono le torri al chiar di luna.
Cicale sognanti cantano alle stelle, gli amanti si abbracciano nell’incanto della sera.“Bergamo; e io vorrei farle una dichiarazione d’amore”
… Forza, che adesso le parole non servono!
LA CAPPELLA COLLEONI
L’avevano implorato i rettori della Chiesa di Santa Maria Maggiore, affinchè risparmiasse la loro antica sagrestia. Ma lui aveva la spregiudicatezza del capitano di ventura e la fece abbattere da una squadra delle sue milizie. “Coglia, coglia, coglia!” Era il grido con cui lanciava i suoi soldati sul campo di battaglia, giocando sul suo cognome (da coleus, testicolo). Bartolomeo Colleoni, uno dei condottieri più intraprendenti del XV secolo, aveva deciso di costruirsi in vita la propria tomba nel cuore della sua città: aveva bisogno di spazio e, come ogni capitano, doveva essere in prima linea. La sua cappella, progettata dal migliore architetto sulla piazza in Lombardia, Giovanni Antonio Amadeo, si presenta infatti in posizione avanzata rispetto alla chiesa adiacente, dalla quale si distingue anche nella decorazione della facciata, palesemente più esuberante.
Non da meno in quanto a sfacciataggine lo stemma, posto sulla cancellata di ferro, sul quale sfoggia tre testicoli: “i ball”, come le chiamano i bergamaschi, un potente simbolo di fertilità, che fece nascere la leggenda che egli fosse particolarmente dotato e che oggi ci appaiono lustri come l’oro, a furia di sfregamenti e carezze, perchè si dice portino fortuna. Chissà come ne sarebbe stato orgoglioso lo spavaldo condottiero, anche se nel 1500 Pietro Spino, nella sua Historia di Bartolomeo Colleoni lo chiamava in modo non poco pittoresco “Bartolomeo Coglioni”, soprannome che rimase nella tradizione popolare del ricordo del capitano, passato alla storia per il suo nome, ma anche per il suo stemma. I suoi soldati, però, che ben lo conoscevano, lo chiamavano l’ “invincibile”.
È un eroe a cavallo a raffigurarlo all’interno, sopra uno dei due sepolcri che costituiscono la sua tomba. “Ma il Colleoni si trova nell’arca superiore o inferiore?”. Le cronache ricordano l’imbarazzo di fronte a Vittorio Emanuele III che, in visita nel 1922, fece quella banalissima domanda, ma nessuno gli seppe dire dove fosse effettivamente il corpo del condottiero. Ne nacque un giallo che alimentò non poche leggende, fino ad ipotizzare che il feretro fosse stato collocato sotto il pavimento della Basilica di Santa Maria Maggiore, che fu in parte ribaltato, ma i suoi resti, furono poi trovati nell’arca inferiore della sua tomba, insieme ad una lapide che fugava ogni dubbio. Sul sepolcro, accanto ai bassorilievi con storie sacre, domina lo stemma del capitano: i tre testicoli e la scritta “Coglia, coglia, coglia”, perchè tutti sapessero con chi avevano a che fare. Alla fierezza del capitano impettito a cavallo, si accosta, con una delicatezza composta, la statua della piccola Medea, la figlia quattordicenne la cui vita fu stroncata da una malattia, e accanto a lei, sottovetro, il suo amato uccellino: si narra morì lo stesso giorno, come se avesse avvertito l’agonia della padroncina. Oggi ne rimangono pochi ossicini, insieme alla sua storia commovente, beffeggiata anch’essa dall’ironia dei bergamaschi, che l’hanno soprannominato come la loro torta tipica “polenta e osei”: forse meglio questo del nomignolo dato al Colleoni…!
Golosità Tipiche
Testo di Scilla Nascimbene
Foto – ©Matteo Marinelli e ©Scilla Nascimbene
In collaborazione con la Rivista “ITINERARI e LUOGHI“:
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