Reportage

Feltre – RINASCIMENTO DOLOMITICO

Sulla pietra rossa su cui poggia la città campeggia il leone di San Marco. 
Finestre rubate al Canal Grande si contendono le facciate dei palazzi con affreschi e capitelli ingoiati dalle fasi del tempo, che profuma di nobiltà veneziana.
Ma sotto i bugnati sorretti da colonne in marmo sfumate di grigio, riposano domus di età romana, durante la quale Feltre emanava già la sua vitalità straordinaria. Oggi la città riparte dal suo antico splendore e si prepara al 2021. L’anno zero. Quando, in Piazza Maggiore, quel “leone di montagna” diventerà l’emblema di una nuova rinascita.
 

Feltre - Sulla pietra rossa su cui poggia la città campeggia il leone di San Marco. Finestre rubate al Canal Grande si contendono...

La piccola città, a parte lo sfondo delle montagne, non è alpina, ma appare contesa tra due forze distinte e lontane. A sud il mare e Venezia, con le sue calle, i carnevali, l’oriente. A nord il ventaglio delle Alpi con le sue vette, alcune dalle sagome più dolci e rotonde, altre aguzze, più alte. Al di là, “nascosti, c’erano Lutero e gli imperatori, Dürer e Mozart” scrive lo storico Matteo Melchiorre ne La via di Schenèr, una tortuosa mulattiera che, attraverso il feltrino, metteva in comunicazione la pianura veneta con il mondo germanico. Tra queste alture la frequentazione è antica quanto l’origine dell’uomo: il Monte Avena ha restituito manufatti in selce di 40000 anni, riconducibili all’uomo di Neanderthal. “I Neanderthal avevano una cultura molto complessa” ci spiega l’archeologo Matteo Curto “e seppellivano su letti di fiori”. Lo seguiamo durante le sue ricerche in Val Rosna dove, nel 1987, gli scavi hanno portato alla luce la tomba di un uomo paleolitico, vissuto 14000 anni fa, coperta da sassi dipinti con scene di caccia, di cui uno, rivolto verso l’osservatore, è considerato la prima lapide della Storia.
 
 Le origini retiche di Feltre sono testimoniate da un’iscrizione in pietra conservata presso il Museo Civico, dove procedono i lavori di allestimento del nuovo Museo Archeologico, che gli si affiancherà in alcune sale. “Non sarà il classico museo statico, ma il racconto di una storia attraverso un percorso archeologico in città, abbinando luoghi a tecnologie multimediali” spiega Alessandro Del Bianco, giovane assessore alla Cultura per poi passare a illustrare una serie di interventi di sistemazione e di restauro dei beni storico-artistici cittadini, che avranno come scopo quello di restituire a Feltre il suo ruolo di cerniera tra pianura e montagna – oggi rappresentate dai due siti Unesco di Venezia e delle Dolomiti – e di rilanciarla come centro rinascimentale integro (poiché completamente ricostruito dopo l’incendio del 1510) di stampo veneziano ma con influssi del nord. L’assessore lo definisce “Rinascimento Dolomitico” e mentre parla di rinascita, si avvicina a una statua acefala all’ingresso del museo. Raffigura Esculapio, il dio della medicina greca che, nella mitologia, aveva il potere di far risorgere. È stata trovata sotto il sagrado del Duomo, area in cui avrà inizio il percorso archeologico e che conserva tracce di edifici di età romana, paleocristiana e medievale, epoche in cui Feltre era già un punto di snodo tra mondi diversi, luogo di transito per il commercio della lana, del ferro e del legname, tant’è che nel suo territorio i Romani costruirono una delle loro infrastrutture portanti, la Via Claudia Augusta Altinate: un’arteria di grande scorrimento che dall’Adriatico si spingeva oltralpe, oggi fiore all’occhiello del cicloturismo transalpino.
 
Dall’area del Duomo, il percorso si svilupperà all’interno delle mura soffermandosi su alcuni punti d’interesse archeologico, fino ad arrivare nel museo vero e proprio, dove la storia dei vari reperti sarà raccontata mediante ricostruzioni multimediali. Tecnologie che saranno utilizzate anche all’interno della Torre dell’Orologio per illustrare le trasformazioni di Piazza Maggiore e del Castello di Alboino nel corso delle diverse epoche storiche. La Torre, in fase di restauro, verrà aperta al pubblico nella primavera 2021 insieme al Museo Archeologico, ad alcuni edifici sacri, alla Sala Consiliare, a quella degli Stemmi e al Teatro della Sena (cioè “della scena”), sotto cui sono state rinvenute tracce dei vari terrazzamenti della città, che rimarranno visibili alla riapertura dell’edificio, quando lo stesso sarà fruibile in tutti i suoi spazi, passando dagli attuali 132 posti a circa 300. Il teatro, che nel Settecento, celebrò gli esordi del commediografo veneziano Carlo Goldoni, diventerà un contenitore d’arte e di spettacoli, ma anche un museo, il cui valore, oltre che nelle scenografie e nei macchinari originali conservati, risiede nell’essere l’unica testimonianza del più famoso Teatro La Fenice di Venezia – andato distrutto dopo un incendio – poiché concepito sul piano architettonico e decorativo dagli stessi artefici: l’architetto neoclassico Giannantonio Selva e lo scenografo Tranquillo Orsi. 
 
Il forte legame con Venezia si respira anche nelle sale della Galleria d’arte moderna “Carlo Rizzarda”, museo del ferro battuto e delle arti decorative del primo Novecento, ospitata nel cinquecentesco Palazzo Bovio-Villabruna Cumano, il cui ultimo piano sarà allestito con una collezione di vetri d’arte veneziani e muranesi, alcuni dei quali disegnati da Carlo Scarpa (1906-1978), designer del vetro per Cappellin e Venini. Il Palazzo,  già casa-museo del grande maestro del ferro battuto Carlo Rizzarda (1883-1931), arricchito anche dalla sua collezione d’arte contemporanea, conserva opere che testimoniano tutta la sua produzione artistica, dalla Secessione all’Art Nouveau, dal Déco al Novecento. Un successo frutto non solamente del suo talento, ma della capacità di adattarlo al cambiamento del gusto, che Rizzarda assecondava attraverso stili e tecniche nuove per creare opere sempre contemporanee, fonte di stimolo per nuove idee artistiche e di pensiero.
Le sale della galleria sono ulteriormente impreziosite da una collezione di capi firmati Dianora Marandino (1912-2003), regalo della stilista all’amica feltrina Antonia Guarnieri, figlia del letterato, e nel 2019 donati al museo per ampliarne la panoramica sulle arti decorative ai tessuti, settore trainante dell’economia della città dall’epoca romana: i panni feltrini, già prima del Cinquecento, erano esportati fino in Siria e a Tripoli, arrivando, un secolo più tardi, anche nelle raffinate Londra e Parigi.
 
Oggi Feltre dimostra di aver saputo valorizzare l’unicità dei suoi beni storici non solo restaurandoli, ma adattando la loro fruizione alla nostra era, perché diventino realtà dinamiche, centri di sviluppo, di progetti e di circuiti culturali, fonte di evoluzione per nuove idee. 
Per un Rinascimento Dolomitico.
 
TRAME DI COLORE
Nei suoi abiti, la moda si accosta all’arte. Colori brillanti, motivi geometrici e floreali accompagnano linee morbide e femminili in modelli ricchi di fascino, ma pratici e confortevoli. Il prêt-à-porter della stilista fiorentina si inserisce, negli anni Cinquanta, nel circuito della moda-mare legata ai luoghi di villeggiatura più rinomati, italiani ed esteri, mentre i giornali mostrano i suoi capi indossati da dive internazionali, come Liz Taylor, Geraldine Chaplin, Anna Magnani e le principesse di casa Savoia.
Eppure, Dianora Marandino aveva iniziato la sua attività di creatrice di moda quasi per gioco, alla fine degli anni Quaranta, aiutata da una domestica nel bagno e nella cucina della sua casa, arrivando, nel giro di pochi anni, a collaborare con importanti case dell’haute couture nella creazione di modelli che riportavano il suo nome, a ribadire la sua indipendenza creativa. 
Le trame attingono alla natura, ma anche all’antichità, alla ceramica popolare e all’arte contemporanea, con evidenti richiami agli abiti delle popolazioni giapponesi Ainu, a cui si ispira. Protagoniste assolute sono però le tinte, luminose e seducenti, nel loro fondersi con le fibre di cotone e negli accostamenti insoliti ed eleganti carpiti al mondo naturale.
 
LUCE ALLE PRIGIONI
Squarci di luci proiettate sui muri, tra i graffiti di chi ha terminato i suoi giorni in quelle celle anguste. Voci inquietanti che sussurrano minacce, tra le porte borchiate, le inferriate, i corridoi. Un nuovo modo di rievocare delitti, fughe e catture, giochi di potere, accaduti nella Feltre del Seicento, già ricostruiti nel libro dello storico feltrino Gigi Corazzol “Cineografo di banditi su sfondo di monti”.
Gli ambienti delle ex prigioni, al piano interrato di Palazzo Pretorio, sede dell’Archivio comunale, si illuminano in notturna, di una cromia spinta, talvolta violenta. Raccontano storie con un linguaggio nuovo, che sorprende ma cattura, attraverso un percorso di installazioni audiovisive, opera di un gruppo di artisti che hanno interpretato fatti di epoche fa, mettendoli in relazione con vicende criminali del dopoguerra e del terrorismo degli anni di piombo, attingendone l’estetica di stili grafici e cinematografici. Una narrazione alternativa e una visione totalmente inaspettata. Vicende di guardia e ladri che hanno come protagonisti una banda di bravi. Criminali nell’anima.“Purtroppo son bandito. Voglio star dove mi pare”. Questo disse uno di loro, nella prigione del Palazzo Pretorio. 
Quando fu interrogato, due giorni prima di morire.
 
GLI ARTISTI DI OGGI
IL SANTUARIO DEI SANTI VITTORE E CORONA
Maestranze veneziane sul Monte Miesna
Il legame tra Feltre e la città lagunare si apprezza anche nel raffinato connubio tra i motivi orientaleggianti e le iconografie occidentali delle decorazioni del Santuario dei Santi Vittore e Corona, l’edificio più antico e artisticamente rilevante del feltrino, abbarbicato su uno sperone roccioso del monte Miesna, sul luogo di un’antica fortezza di epoca longobarda, demolita nel 1421 per decreto della Repubblica di Venezia.
 
All’interno del complesso fortificato, il feudatario imperiale Giovanni da Vidor, condottiero dei feltrini alla Prima crociata, aveva fatto erigere nel 1096 un Santuario per custodire le reliquie dei due martiri protettori di Feltre e della sua antica diocesi, oggi conservate in un’arca posta nella zona del martyrium, all’interno della chiesa. Nell’attuale sacrestia, ricavata all’interno dell’abside, è murata una lapide del 1096, parte del sarcofago di Giovanni da Vidor, ricordato come fondatore della Basilica nell’iscrizione  dettata dal figlio Arpone, vescovo di Feltre e committente dell’opera, realizzata probabilmente da maestranze veneziane che lavorarono nella fabbrica di San Marco alla fine dell’XI secolo. 
 
La lapide è sorretta da colonne sormontate da capitelli a foglie di acanto “mosse dal vento” di stampo bizantineggiante, come le decorazioni che impreziosiscono la cornice, e rappresenta il manufatto artistico religioso più remoto del feltrino. Prima della costruzione dell’abside ottocentesca che la ingloba, sovrastava il portale di ingresso al santuario, rimanendo ben visibile da chiunque arrivasse dalla via del Piave alla chiusa di Anzù, l’accesso principale di Feltre fin dal Medioevo.
 
Allo stesso ambito veneziano appartengono i capitelli decorati a niello che sorreggono la loggetta absidale e la parte superiore dell’arca di martiri, di fronte alla quale un ciclo pittorico trecentesco, riconducibile a una bottega giottesca, raffigura nelle lunette il Giudizio Universale e un’Ultima cena con gamberi nella parete sud. 
All’esterno, rimane l’antico chiostro con al centro un pozzo del 1569, fulcro del convento sorto a partire dal 1494, soppresso nel Settecento.
 
Durante la Seconda Guerra Mondiale, si registrò un evento significativo nella storia della città. Nel giugno 1943, venne organizzata una processione dal Duomo di Feltre alla Basilica per chiedere l’intercessione dei Santi a favore dei dispersi di Russia. Vi parteciparono più di venti mila persone e pare che quando la testa del corteo fosse ormai giunta al Santuario, la coda dovesse ancora partire! La processione, considerata la prima marcia della pace, è raffigurata su una parete dell’ex sacrestia del Santuario in un affresco di Vico Calabrò. L’artista veneto, fondatore della Scuola Internazionale dell’affresco, insegna da 45 anni questa tecnica pittorica, trascurata dalla scuola contemporanea, nonostante sia stata protagonista della storia dell’arte italiana e anche di quella di Feltre, i cui palazzi, ricostruiti in seguito all’incendio del 1510, furono elegantemente affrescati, tanto che la città fu definita “urbs picta”.
 
FELTRE: CERNIERA TRA PIANURA E MONTAGNA
La necropoli romana di San Donato
L’ipotesi di antiche vie di comunicazione che già dall’età romana collegavano Feltre al mondo germanico è confermata dai ritrovamenti archeologici avvenuti nella località di Piasentot a San Donato di Lamon, in una zona montuosa del Bellunese prossima alla Valsugana, compresa in età romana nel municipium feltrino.
I risultati degli scavi a San Donato, iniziati nel 2000, hanno accertato la presenza di un’estesa necropoli romana con un arco cronologico di frequentazione dalla metà circa del I sec. al IV sec. e hanno consentito di realizzare l’esposizione attualmente visitabile negli spazi del Museo Civico Archeologico di Lamon, che accoglie i corredi ritrovati nelle ultime campagne di scavo e anche preziosi reperti del territorio lungo un arco temporale che va dal Paleolitico superiore all’epoca postmedievale.
Molti sono gli aspetti particolari di questa necropoli, in primis la modalità di deposizione. I defunti erano sepolti in semplici fossi scavati nel terreno e in posizione pressoché seduta e avevano come corredo accessori di abbigliamento (fibule o elementi di cintura), manufatti d’uso quotidiano (coltelli o aghi da cucito), monili, gioielli di pregio e monete, a testimonianza del commercio dell’antica comunità residente – il cui status medio doveva essere caratterizzato da una certa agiatezza – lungo un’antica strada verso il Tesino, denominata “via pagana”, ancora oggi percorribile a piedi nel tratto da Costa a San Donato, che probabilmente corrispondeva con l’asse della via Claudia Augusta Altinate.
Oltre alla particolare tipologia di inumazione, che non sembra trovare confronti nei contesti funerari di epoca romana finora noti, è rara la presenza di una sepoltura rituale di un bovino, portata alla luce duranti gli scavi e oggi conservata nel Museo.
Questi e altri elementi fanno della necropoli un caso di grande interesse storico- archeologico, testimonianza degli insediamenti lungo uno dei percorsi viari che in età romana collegavano Feltre con il Trentino.
ULTIME CENE CON GAMBERI  
Lungo la via del Piave, nella Valbelluna, i torrenti erano anticamente popolati da gamberetti autoctoni. Alcuni pittori locali, tra cui Giovanni di Francia (1380 – 1448), iniziarono così a dipingere l’Ultima Cena con il piatto tipico: i gamberetti di fiume. Queste pitture parietali, ascrivili ai secoli XIII – XV hanno riscontrato un notevole interesse da parte dei visitatori, tanto da stimolare il progetto di un circuito turistico che colleghi le chiese coi crostacei sulla tavola tra il Cristo e gli Apostoli. 

Testo: ©Scilla Nascimbene

Foto: ©Matteo Marinelli & ©Scilla Nascimbene

Articolo pubblicato sul N° 257 di MERIDIANI – Ottobre 2020

RINGRAZIAMO

Il Direttore Marco Casareto e la Redazione di MERIDIANI – EDITORIALE DOMUS
 
Alessandro Del Bianco – Vicesindaco e Assessore alla Cultura e al Turismo di Feltre
 
Isabella Pilo – Guida turistica della Provincia di Belluno 
 
Lionello Gorza – Presidente del Consorzio Turistico Dolomiti Prealpi
 
Martina Gris – Consorzio Turistico Dolomiti Prealpi
 
Matteo Curto – Responsabile dell’Area Archeologica di Feltre
 
Don Angelo Balcon – Parroco del Duomo di Feltre
 
Don Giacomo Mazzorana – Direttore del Museo Diocesano Belluno Feltre
 
Mariuccia Resenterra – Assessore alla Cultura del Comune di Lamon
 
Don Fabrizio Tessaro –  Parroco di Sorriva-Sovramonte
 
Vico Calabrò e Tiziano Sartor  – Associazione Culturale per l’Affresco 
 
Alberto Fiocco – Direttore Artistico dell’Associazione Culturale Visioni 
 
Silvia Potter – Produzione Artigianale Ceramiche e Vetro
 
Sergio Innocente – Laboratorio Orafo
 
Mara e Walter Pilotto – Libreria Pilotto
 
Oscar Martello – Fabbro  della Scuola Rizzarda

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